Perché oggi molta gente non ce la fa? Perché quelli che mollano la presa sono quasi sempre i volti più sorridenti?
Il vero male di quest’epoca è la cecità e la sordità dell’anima. Un’indifferenza camuffata da messaggini di circostanza e da attenzioni minime verso il prossimo.
Quanti di noi sono davvero disponibili ad ascoltare qualcuno depresso e a stargli accanto? Quanti di noi sono davvero pronti a lasciare le chiacchiere, e a fare qualcosa?
I depressi sono persone noiose, pesanti, che necessitano di presenza, di iniezioni di parole buone, di pazienza e rassicurazioni. Con loro niente fretta, solo cuore e sincerità.
Più facile è certamente star dietro agli articoli che consigliano di tenere lontano da noi questi soggetti ombrosi e negativi. In realtà le persone depresse non hanno nulla a che vedere con i lamentosi che sono ben contenti di potersi piangere addosso. Soprattutto di questi tempi il mondo che ci circonda è pieno di realtà difficili, e di panni sporchi diligentemente lavati in casa. Esistono situazioni reali da cui non si riesce a venirne a capo. Sono quei casi in cui il dolore si insinua muto, pur urlando in un silenzio assordante, invisibile per scelta ma mai possibile da celare totalmente.
I social poi ci vogliono costantemente sorridenti e da copertina. Fasulli, riassumendo in una parola il concetto.
È d’obbligo dare un’immagine di noi vincente, sicura, realizzata, affermata, seducente.
Ci vuole veramente una grande dose di coraggio e umiltà nell’ammettere a qualcuno di avere dei problemi, ed aprirsi quindi alla vulnerabilità. Questo resta per la maggiore un passo che in molti non riescono nemmeno a compiere.
È quando non si ride più, quando lo spirito goliardico finisce, che si vede davvero chi c’è e chi non c’è mai stato.
Spesso è proprio in questa apertura che avviene la lacerazione maggiore, poiché ci si ritrova nel vuoto. Un vuoto che non ci si aspettava. Avviene un fuggi fuggi generale. Le persone, vicine o lontane che siano, al solo odore di bisogno, si volatilizzano. Ti ascoltano magari, ma si congedano con le classiche frasi facili “Vedrai che sei forte e ce la farai.”
No. Se quella persona vi ha chiesto aiuto, è perché non ce la sta facendo.
Cosa rimane del suo chiedere soccorso? Un senso di ridicolo, di umiliazione, di debolezza, di inutilità, di devastante solitudine.
Si fa presto poi a dire “Soffriva di depressione”, e a voltare nuovamente le spalle. Siamo tutti lì a sbracciarci per le maggiori cause umanitarie, quando accanto a noi c’è qualcuno che soffre nell’anima, spesso per motivi reali e non facilmente risolvibili.
Ci si ritrova così da soli, più che mai, nel risolvere qualcosa che ci ha ravanato dentro, usurandoci pensieri ed energie, confondendoci speranze e delusioni. E ci si perde…
Nessuna mano ferma quella giostra vorticosa e macabra, che si innesca senza il nostro consenso. Nessuna.
La sofferenza degli altri ci fa paura e ci sgomenta, perché ci ricorda la nostra, ben nascosta e mascherata, che graffia senza tanti complimenti le immagini dei nostri sorrisi migliori.
Una richiesta d’aiuto ci costringe a dare, e a farlo in termini veri. Ci costringe a distogliere l’attenzione dal nostro individualismo, per dare spazio ad un onere faticoso.
Oggi ci siamo abituati al solo sforzo di un “like”, che ci mette a posto con la coscienza. Come se tutte le sfilze di buon giorno, buona notte, e robe simili, possano veramente costituire un valore importante nelle relazioni con gli altri. Respiriamo superficialità a pieni polmoni, appagati da conferme che non valgono nulla.
Forse dovremmo un attimo guardare alla vita, come se fosse un oceano su cui navigare. C’è chi ha la nave, chi ha la barca, chi il canotto, chi è costretto a nuotare. C’è chi naviga col vento a favore, e chi ha una tempesta dentro.
Comunque sia, abbiamo tutti il diritto di approdare in quell’isola che contempla il superamento di ogni cosa e il sorriso di chi non si è arreso.
Chi è annegato, aveva forse solo bisogno di un salvagente: le nostre braccia.
– Patrizia Perotti –
È l’indifferenza che miete vittime